BuonaDomenica#16

Le timide spruzzate di neve che hanno imbiancato Milano hanno rinnovato quello che per me si configura come un piccolo-grande miracolo della natura: nato e cresciuto nella terra mite e avara di precipitazioni del Salento, quando, durante la mia infanzia e adolescenza, nevicava – evento molto raro – era una festa per tutti. Due centimetri di neve bastavano a non farci andare a scuola, dando la priorità ai giochi con la neve, sulle terrazze piatte delle case salentine o in strada. La neve era per noi quasi un’entità astratta, vista nelle illustrazioni dei libri di lettura e dei Sussidiari delle scuole elementari: mi rendo conto che per gli altri italiani che abitano nel resto d’Italia questo sia un concetto difficile da capire perché, nel resto della Penisola, è normale che d’inverno cada la neve. La neve dunque, per i salentini, appare come una epifania che incanta, forse più di quanto non accada a chi vi è da sempre abituato.
Così come, qualche anno più tardi, nell’età dell’adolescenza e della giovinezza, restavo incantato dalle descrizioni letterarie della neve: in primis, tra i tanti capolavori, le pagine di Tolstoj, ma poi tanti altri fino ai russi del Novecento, da Pasternak a Achmatova, e anche tanti italiani tra i quali l’ancora troppo sottovalutato Fenoglio.
Mi piace ricordare in questo post − che mi fa trascorrere dai ricordi del passato e dalle rimembranze letterarie all’attualità – due momenti in cui la neve, oltre che fare da sfondo, diventa quasi agente protagonista degli eventi: dal capolavoro di Tolstoj “Guerra e pace” una scena d’amore e felicità e un’altra intensamente drammatica. Nella prima la neve, romanticamente, fa da sfondo a una intensa, delicata scena di un amore nascente: «[…] In cortile c’era ancora quel freddo immobile, quella stessa luna che sembrava ancor più luminosa. La luce era così forte, e tale era lo scintillío della neve, che non si desiderava neppure guardare il cielo, e le vere stelle erano addirittura dimenticate. Il cielo era nero e triste. Sulla terra c’era invece tanta felicità.»
Nella seconda emerge una bellissima figura letteraria, immersa negli sterminati paesaggi russi coperti dalla neve: si tratta di un personaggio minore, tra le centinaia di cui è costellato l’epico romanzo, Platon Karatajev, una figura umile, mite, semplice, ma estremamente significativa per il suo rapportarsi alla vita e agli altri. Un soldato arruolato nell’armata russa che uno dei protagonisti del romanzo, il conte Pierre Bezuchov, incontra durante una fase molto critica, per i russi, della guerra contro l’invasione napoleonica e dal quale Pierre resta profondamente segnato. Pierre è stato fatto prigioniero dai Francesi e marcia con loro in disastrosa ritirata dopo l’incendio di Mosca: il cammino avviene nei rigori del Generale Inverno russo e, aggravato dalla mancanza di viveri ed elementi di prima necessità, i soldati francesi e russi muoiono a migliaia. Si procede tra gli stenti nella neve e quando qualcuno non ce la fa più e si ferma o cade decreta praticamente la sua morte. Così avverrà per il buon Platon Karatajev che si ammala e durante l’ennesima trasferta, al momento della partenza, viene abbandonato insieme agli altri soldati non più in grado di proseguire la marcia.
Scrive Tolstoj nella scena finale in cui Pierre riprende la marcia sapendo di lasciare Platon al suo destino: «[…] Karatajev guardava Pierre con i suoi occhi miti e rotondi, velati dalle lacrime; lo invitava palesemente verso di sé per dirgli qualcosa. Ma Pierre era già anche troppo spaventato per sé stesso. Finse di non aver visto il suo sguardo e si allontanò in fretta. Quando i prigionieri si misero in marcia, Pierre guardò indietro. Karatajev era seduto a lato della strada appoggiato alla betulla, e due Francesi, presso di lui, parlavano designandolo. Pierre non guardò più oltre. Si avviò zoppicante per l’altura. Dietro a lui, dal luogo dove era seduto Karataiev, si udì uno sparo. […]»; (traduzione dal russo a cura di Eridano Bazzarelli, 1960).
Che si può dire, oltre alla grandezza dello scrittore che già nella seconda metà degli anni Sessanta dell’Ottocento descrive una scena così drammatica con una asciuttezza letteraria impensabile in quegli anni, ricorrendo a una costruzione paratattica carica di tensione. Viene da pensare forse, al di là dell’aspetto letterario, a quante volte voltiamo da un’altra parte lo sguardo quando incrociamo quello dei senzatetto o dei migranti.
L’emergenza, la difficoltà del vivere diventa purtroppo normalità e a questa normalità con cui accettiamo centinaia, migliaia di morti nel Canale di Sicilia, o migliaia di migranti tenuti come schiavi nelle aziende agricole italiane, a questa normalità ci stiamo abituando e come il protagonista del capolavoro di Tolstoj voltiamo la testa dall’altra parte e tiriamo dritto. Accade anche, era sui giornali di venerdì scorso, che il migrante Prince Jerry − nigeriano di 25 anni, sbarcato in Sicilia due anni e mezzo fa, trasferitosi a Genova dove ha lavorato nella comunità di monsignor Martino e dove ha imparato l’italiano con la speranza di poter studiare chimica all’università – alla notizia che la sua richiesta di protezione internazionale non era stata accolta, si sia tolto la vita gettandosi sotto un treno.
Che il chiarore notturno della neve ci illumini orientando i nostri sguardi anche su chi sta peggio di noi.
Buona domenica.

Giardini Mendel, Milano 2009. Sullo sfondo il grattacielo della Regione Lombardia in costruzione.

Riproduzione vietata per tutte le immagini e i testi. © Pio Tarantini